Diagnosi delle intolleranze alimentari
Molti Pazienti giungono all’osservazione di noi Gastroenterologi, lamentando disturbi dell’apparato digerente, ma, spesso, con coinvolgimento di altri organi e apparati, con la netta sensazione che tali disturbi siano indotti da alcuni alimenti e nutrienti.
È noto quanta importanza venga data all’alimentazione nella nostra cultura ed è anche notorio che molte patologie sono indotte da cattive abitudini o eccessi alimentari.
Il termine “intolleranza alimentare” si riferisce all’incapacità che alcuni Pazienti hanno di “tollerare” un dato alimento o alcuni nutrienti, in termini biochimici o metabolici. Questi meccanismi non hanno nulla a che vedere con le funzioni del sistema immunitario, come avviene nelle allergie alimentari.
Queste ultime sono più rare delle intolleranze e più facilmente diagnosticabili, ricorrendo a test ematici, come il Prist e il Rast (ossia il dosaggio totale o specifico delle Immunoglobuline di tipo E), o a test cutanei, come i Prick Test.

Ma ho ampiamente evidenziato che le intolleranze alimentari si differenziano dalle allergie proprio perché non viene attivato il sistema immunitario, o viene attivato solo in minima parte.
Tre sono le possibili cause delle intolleranze alimentari:
1. la mancanza parziale o totale degli enzimi che servono a scindere e digerire quello specifico nutriente: per esempio, la carenza relativa o assoluta di lattasi, nel caso dell’intolleranza al lattosio; 2. un’esagerata reattività biochimica a molecole presenti in determinati alimenti; è questo il caso, per esempio, della molecola tiramina, presente nei formaggi stagionati, che può dare cefalea, in individui intolleranti; 3. una terza categoria di reazioni agli alimenti, non-tossiche e non mediate dal sistema immunitario, si definisce idiopatica, in quanto non è possibile individuare i meccanismi che la provocano.
La scelta dell’alimentazione può essere un problema

1) L’intolleranza da carenze di enzimi, la prima delle tre cause citate, è la più frequente reazione non-tossica e non-immuno-mediata. È insomma la tipica intolleranza alimentare e il tipo più diffuso è quella al lattosio, uno zucchero presente nel latte. Questa forma d’intolleranza è dovuta alla carenza o alla riduzione dell’enzima, chiamato lattasi, che serve a digerire il lattosio. La mancata scissione e assorbimento di questo zucchero determina i sintomi di gonfiore, flatulenza, dolore addominale e diarrea osmotica. In questo caso, la funzione immunitaria non è chiamata in causa e l’entità dei disturbi è direttamente proporzionale alla quantità di lattosio ingerita e inversamente proporzionale alla quantità di lattasi, di cui l’organismo dispone.
Queste intolleranze alimentari, legate a carenze enzimatiche, hanno come effetto il malassorbimento del nutriente verso il quale si è intolleranti. Ecco perché esse sono più facilmente diagnosticabili con test malassorbitivi a nostra disposizione, che individuino l’enzima carente deputato alla digestione dello specifico alimento.
L’esempio tipico di un test assorbitivo è il breath test al lattosio. Questa forma d’intolleranza enzimatica può essere ereditaria o acquisita, per motivi diversi. È molto diffusa in Asia e in alcune regioni dell’America. In Europa, è più frequente nelle aree mediterranee, tra cui l’Italia, e meno nel Nord.Il lattosio è lo zucchero contenuto nel latte. Per essere assorbito e utilizzato dall’organismo, il lattosio deve essere scomposto nelle sue componenti, il glucosio e il galattosio. Perciò è necessario un enzima chiamato lattasi. Se non vengono prodotte sufficienti quantità di lattasi, una parte del lattosio ingerito non viene assorbito.

Questa intolleranza può essere mitigata dall’utilizzo dell’enzima artificialmente prodotto e ridotta attraverso la graduale reintroduzione nella dieta dei cibi contenti lattosio. Questo è vero soprattutto nelle forme acquisite. La sintomatologia, come in tutte le classiche intolleranze, è dose-dipendente: maggiore è la quantità di lattosio ingerita, più evidenti sono i disturbi e i sintomi. Questi sono flatulenza, diarrea, gonfiore e dolori addominali. In caso di diagnosi d’intolleranza al lattosio, non è sempre necessario eliminare completamente i prodotti che lo contengono, ma è possibile individuare la quantità massima di lattosio, che può essere tollerata, senza scatenare sintomi. Se l’intolleranza è grave, è importante fare attenzione e leggere accuratamente le etichette degli alimenti: il lattosio, infatti, è utilizzato in molti cibi pronti.
Il breath test al lattosio è un test scientificamente validato per fare diagnosi. Esso si basa sulla misurazione di idrogeno, dosabile nell’aria espirata, proveniente dallo zucchero non assorbito, che arriva nel colon. Qui, la flora microbica locale lo fermenta con produzione di gas (idrogeno, metano, ed anidride carbonica), dando origine ai tipici sintomi di meteorismo, flatulenza, nausea e dolori crampiformi. Parte di questi gas viene riassorbita dalla mucosa del colon, quindi trasportata dal sangue venoso sino agli alveoli polmonari ed eliminata con la respirazione. Rilevando la quantità di idrogeno nell’aria espirata dal paziente è possibile diagnosticare l’intolleranza al lattosio.
L’H2 – Breath Test è definito il gold standard per la diagnosi di intolleranza al lattosio. E’un test non invasivo ed economico, necessario per indagare la capacità di digerire il lattosio. Diversi studi dimostrano che questo tipo di test ha una buona sensibilità (circa 77,5%) ed un’eccellente specificità (circa 97,6%). Con tale test si valuta la presenza di idrogeno (H2) nel respiro del Paziente, effettuando una serie di misurazioni, secondo un metodo ampiamente testato ed approvato dalla comunità scientifica.

La metodica consiste nel far soffiare il Paziente in una sacca apposita, dopo avergli somministrato una bevanda con lattosio. Uno strumento, chiamato gas-cromatografo, rileva, nell’espirato del Paziente, la quantità di idrogeno.
Il test inizia con la registrazione del valore al tempo zero, ovvero registrando la quantità di idrogeno espirata, prima dell’assunzione di lattosio (chiamato valore basale). Successivamente, il paziente deve assumere uno specifico quantitativo di lattosio (25 gr per gli adulti; nei bambini 1 gr per kg fino a 25 kg) e soffiare nuovamente per le 4 ore successive ad intervalli regolari di 30 minuti. Lo strumento analizzerà la composizione del respiro, per verificare se è stato prodotto e in quale misura idrogeno (H2).

Un incremento della produzione di questo gas, maggiore di 20 parti per milione (p.p.m.) rispetto al valore basale, indica che il soggetto è intollerante al lattosio.
I valori ottenuti, generalmente, sono riportati in un grafico (e/o in una tabella). In verticale, sulle ordinate, è riportata la quantità di idrogeno espressa in parti per milione (p.p.m.) e in orizzontale, sulle ascisse, il tempo espresso in minuti.
Un’altra possibilità per documentare l’intolleranza al lattosio è l’esecuzione del test genetico, che indica se il soggetto è predisposto o meno a sviluppare una riduzione dell’attività dell’enzima lattasi. Predisposti significa che c’è la possibilità di sviluppare l’ipolattasia nel corso della vita.
Recentemente è stata individuato una variazione del DNA, un polimorfismo C/T, posizionato a 13910 basi a monte del gene codificante per la lattasi, associato alla forma di intolleranza al lattosio ad insorgenza nell’età adulta, detta anche lattasi non persistenza (LNP) o ipolattasia.
La variante C in omozigosi (Genotipo C/C), associata ad una minor trascrizione del gene, è correlata con il fenotipo d’intolleranza al lattosio. La sua frequenza nella popolazione è di circa il 60%.
Cosa ci dice il test genetico? Il test genetico per l’intolleranza al lattosio permette di discriminare chi ha entrambe le copie sane del gene (T/T), chi ne ha solo una sana (T/C) e chi le ha entrambe mutate (C/C).
Perché fare un test genetico?Il test genetico è indicato nei soggetti che presentano sintomatologia e/o familiarità (o h2-breath test positivo). Risulta essere una metodica non invasiva e veloce, presentando risultati certi circa il rischio di sviluppo dell’intolleranza al lattosio.
Per l’estrema semplicità del prelievo (generalmente salivare, ma esiste anche ematico) la sua esecuzione è indicata soprattutto nei bambini in cui il Breath test può essere difficoltoso. Inoltre, ha un’estrema affidabilità e ripetibilità (100%).
Questo tipo di analisi permette di distinguere tra l’intolleranza al lattosio di origine genetica, tipica dell’età adulta, e la forma indotta secondariamente (deficit secondario) in conseguenza di altre patologie per deficit di lattasi, dovuto a danno della mucosa intestinale in seguito a gastroenteriti, alcolismo cronico, celiachia, disordini nutrizionali, terapie farmacologiche o interventi chirurgici, evitando falsi positivi/negativi e il sottoporsi da parte del Paziente ad analisi particolarmente invasive, come la biopsia intestinale o impegnative come il breath test.
Breath test e test genetico sono alternativi? No, perché forniscono informazioni diverse. E’più corretto definirli complementari, forniscono due informazioni che completano la diagnosi di intolleranza al lattosio.
E’consigliabile effettuare prima il Breath test se i sintomi, che riconduciamo a quelli tipici di intolleranza al lattosio, sono ricollegabili a cause conosciute, come una terapia antibiotica, particolari operazioni chirurgiche al tratto gastro-intestinale, forti gastroenterite, celiachia, infezioni dell’apparato digerente e intestinale, ecc. in modo da valutare se si tratta d’intolleranza al lattosio secondaria e perciò transitoria.
Se i sintomi, che riconduciamo a quelli tipici di intolleranza al lattosio, sono presenti da anni e non ci sono state cause scatenanti, come quelle riportate sopra, è possibile che si tratti di forma primaria e quindi è utile eseguire il test genetico, per capire se si tratta di una condizione definitiva.

Altri tipi di breath test, con la somministrazione di altri zuccheri (tra cui lattulosio, glucosio, sorbitolo, ecc.), servono a valutare la presenza di altre condizioni, ad esempio la sindrome da sovra-crescita batterica nell’intestino tenue (SIBO), a valutare il tempo di transito intestinale oppure a ricercare l’infezione gastrica da Helicobacter pylori.
Nei casi d’intolleranze alimentari da deficit enzimatico, come nell’intolleranza al lattosio, laddove la dinamica della scissione di questo zucchero è nota, è possibile mettere a punto test assorbitivi, che dimostrino l’intolleranza del Paziente a quel nutriente. I test assorbitivi possono essere breath test o altro tipo di test. Essi possono indicare un’intolleranza del Paziente a quel nutriente, condizione che può essere dovuta ad una patologia e può essere transitoria o definitiva.
Per esempio, il dosaggio dei grassi fecali è un test assorbitivo. La positività del dosaggio dei grassi fecali, quando cioè questi sono presenti in eccesso nelle feci, indica un’intolleranza ai grassi, dovuta a un deficit biliare o a un deficit degli enzimi pancreatici. Anche questa è un’intolleranza alimentare non IgE mediata. Questo esame misura la quantità di grassi nel campione di feci. L’eccesso di grassi (chiamato steatorrea) può essere la spia di una patologia che colpisce la digestione e l’assorbimento dei nutrienti (malassorbimento).
L’organismo digerisce il cibo in tre fasi: dapprima vengono scissi le proteine, i grassi e i carboidrati nello stomaco da acidi ed enzimi e nel piccolo intestino vengono scomposti ulteriormente da enzimi prodotti dal pancreas e dalla bile prodotta dal fegato. Poi sono assorbiti, principalmente nell’intestino tenue, e i nutrienti sono trasportati dal sangue nei vari organi, dove sono usati o immagazzinati.
Se non sono disponibili sufficienti enzimi pancreatici o bile, allora i grassi e altri nutrienti non vengono digeriti adeguatamente. Se una patologia impedisce all’intestino di assorbire i nutrienti, essi vengono persi con l’escrezione fecale. In entrambi i casi (ingestione o assorbimento inadeguati), il Paziente può avere sintomi associati al malassorbimento e, nei casi gravi, sintomi di malnutrizione e carenza vitaminica. Se la patologia impedisce la digestione e/o l’assorbimento dei grassi con la dieta, l’eccesso di grassi è presente nelle feci e la persona può soffrire di diarrea prolungata con dolori di stomaco, crampi, gonfiore addominale, formazione eccessiva di gas nell’addome e perdita di peso.
Il grasso nelle feci può essere determinato con un test fecale qualitativo, con il quale generalmente si determina la presenza o l’assenza di grasso eccessivo. Questo è il test più semplice per la determinazione del grasso fecale ed è eseguito strisciando su un vetrino una sospensione con le feci trattate o non trattate, aggiungendo un colorante per i grassi e osservando al microscopio il numero di globuli di grasso presenti. Questo test non viene effettuato in tutti i Laboratori, perché oggi la richiesta è bassa e, per indagare patologie pancreatiche, ci si avvale del dosaggio dell’elastasi fecale.
La misura quantitativa di grassi fecali, più precisa, richiede una raccolta delle feci prolungata nel tempo, di solito 72 ore, e l’osservazione di una dieta che aiuti a calcolare l’introduzione di grasso durante tutto il periodo. I risultati sono riportati come quantità di grasso escreto per 24 ore. Una variazione del test è chiamata steatocrito, che consente una più rapida, ma meno accurata misura della quantità di grasso nelle feci.
Altri test assorbitivi sono:il test alla trioleina con carbonio marcato: l’espulsione nel respiro di 14-CO2, dopo l’ingestione di trioleina marcata con Carbonio 14-C, permette di rilevare, con lo spetto-fotometro, come per il breath test al lattosio, la quantità di Carbonio marcato, indice di mancato assorbimento dei grassi. Il test del respiro con trioleina ha una buona affidabilità, con una sensibilità del 100% e una specificità del 96%. Nel rilevare la steatorrea, il test del respiro con trioleina era moderatamente superiore alla misurazione del carotene sierico e al grasso qualitativo delle feci. Pertanto, il test del respiro con trioleina sembra essere un test di screening sensibile, specifico, non invasivo e relativamente semplice per il rilevamento della steatorrea. Anche questo test viene poco praticato ed è stato in parte abbandonato per scarsa richiesta.
2) Le intolleranze da “esagerata reattività biochimica” ad alcuni nutrienti è già più difficile da identificare e, a volte, si accavalla con forme leggere di allergie alimentari. Nel definire la differenza tra intolleranze e allergie, quando ho detto che le seconde hanno caratteristiche d’immediatezza e di gravità dei sintomi, va precisato che ciò è vero per le gravi forme allergiche di anafilassi. Ma esistono forme più leggere e forme atipiche: tra le prime cito l’allergia alimentare al nichel, particolarmente frequente e non grave, perché la sua presentazione è molto spesso in forma leggera, anche in considerazione delle modeste quantità che si ritrovano negli alimenti. Ma questa è un’atipicità, perché in realtà, nelle forme allergiche, anche piccole quantità di sostanza, in un organismo sensibilizzato, dovrebbe dare un grave quadro anafilattico. Un’altra atipicità è quella di alcune forme di “allergia ritardata”, come ad esempio quella al pelo del gatto.
Ecco dunque confermato come la Medicina non sia una Scienza esatta e come non esistano regole definitive, nonostante gli sforzi degli Scienziati di catalogare l’oggettività e la ripetibilità dei fenomeni scientifici.
Ma, mentre nei succitati casi atipici del nichel e del pelo del gatto, abbiamo il coinvolgimento del sistema immunitario, in altre forme d’intolleranza da “esagerata reattività biochimica” questo coinvolgimento non è presente. È il caso, ad esempio, dell’intolleranza alla tiramina, contenuta nei formaggi stagionati.
La tiramina è il prodotto derivante dalla decarbossilazione dell’amminoacido tirosina. Essa stimola la secrezione di catecolamine (dopamina, adrenalina e noradrenalina) ed ha attività ipertensiva. La tiramina viene prodotta durante il normale metabolismo della tirosina e si ritrova in svariati alimenti, tra cui vino rosso, formaggi, funghi, lievito, pesce poco fresco e vari tipi di frutta. Origina dai processi di fermentazione e decomposizione operati da alcuni batteri.
La liberazione di noradrenalina dalle vescicole neuronali, favorita dall’ingestione di tiramina, determina vasocostrizione ed aumenta la frequenza cardiaca; ne consegue un sensibile rialzo pressorio, fino alla crisi adrenergica nei casi più gravi. L’esposizione regolare alla tiramina di origine alimentare migliora indirettamente la tollerabilità alla sostanza, riducendo il rilascio di noradrenalina. La scoperta di recettori, con elevata affinità per la tiramina a livello del rene e di altri tessuti, lascia presupporre anche un intervento diretto di questa sostanza nel produrre il noto effetto ipertensivo.
Nell’organismo umano, la tiramina, sia di origine endogena o alimentare, viene metabolizzata dalle monoamminossidasi, enzimi deputati alla neutralizzazione di neurotrasmettitori come adrenalina, dopamina, noradrenalina e serotonina.
Alimenti ricchi di tiramina e di altre ammine biogene sono i formaggi stagionati, come gorgonzola, roquefort, brie, pecorino, groviera, pesce conservato, tipo aringhe, tonno, caviale, salsiccia, insaccati, selvaggina, birra, vino rosso e bevande fermentate, spinaci, lamponi, pomodori, crauti, melanzane, cavoli, cavolfiori, banana, avocado, prugne, fichi, fave, tofu, estratto di lievito, cioccolato, frutta secca e uva.
3) Ma il problema della diagnosi è soprattutto riferibile alla terza categoria d’intolleranze al cibo, quella definita idiopatica. Per queste forme, la diagnosi è quasi sempre di esclusione ed è possibile appunto solo dopo aver indagato ed escluso tutte le altre patologie, correlate ai sintomi e l’eventuale allergia al nutriente indagato.
L’indagine diagnostica più utilizzata, per individuare il nutriente responsabile dell’intolleranza alimentare, è quella empirica di eliminare dalla dieta, per due o tre settimane, i cibi sospettati dal Paziente stesso. Poi si reintroducono, uno per volta, i cibi esclusi, e si valuta quale di essi provoca i disturbi. Si verifica poi con i test diagnostici di Prist e Rast, o, più raramente, con quelli cutanei del Prick test, se è coinvolto il sistema immunitario. In caso positivo, si parla di allergia e non d’intolleranza.
Questo metodo è semplice ed economico, ma oggi esistono anche “test alternativi” per diagnosticare le intolleranze alimentari, che però spesso sono privi di attendibilità scientifica e non hanno dimostrato efficacia clinica. Tra questi, il test citotossico, che si bassa sulla valutazione empirica di modificazioni morfologiche degli elementi corpuscolati del sangue, messi a contatto con i nutrienti indagati.
Un altro test, sempre ematico, basato sul dosaggio delle immunoglobuline, avverse al singolo nutriente, ha una maggiore validità scientifica, anche se è riconosciuto solo in parte dalla Medicina ufficiale. Uno di questi è il Test FInDER (Food Intolerance Digitalized Elisa Reader), che si basa sulla tecnologia computerizzata ELISA e, attraverso un lettore digitalizzato, individua la presenza di anticorpi IgG verso un kit 50, 92 o 184 alimenti, interpretati come antigeni.

Per meglio dare un’idea della problematica, la Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica (SIAAIC), in occasione di EXPO Milano 2015, ha stilato l’elenco dei test “fasulli” per la diagnosi di allergie e intolleranze alimentari.
Si tratta di 6 test:
1. il test leuco-cito-tossico, che valuterebbe la presenza di intolleranze sulla base della reattività dei globuli bianchi a contatto con gli alimenti; 2. il test del capello; 3. il test della forza, che valuta variazioni della forza muscolare, quando si manipolano alimenti presunti nocivi; 4. il VEGA test, che valuterebbe gli squilibri energetici, causati dall’alimento incriminato; 5. la biorisonanza, che valuterebbe le alterazioni del campo magnetico della persona, indotte dagli alimenti; 6. il pulse test o test del riflesso cardiaco auricolare, che valuta le variazioni della frequenza del polso, a contatto con il nutriente, che si presume generi intolleranza o allergia.
1. Test leuco-cito-tossico Questo test si basa sulla valutazione della reazione dei leucociti, posti a contatto con gli estratti alimentari, nei confronti dei quali si vuole stabilire l’intolleranza. L’analisi viene effettuata direttamente sulle cellule leucocitarie, mediante un microscopio ottico in campo oscuro. La metodica seguita per l’esecuzione del test è quella proposta da Bryan e consta delle seguenti fasi: 5 ml di sangue si raccolgono in provetta con anticoagulante e si centrifugano a 2000 – 3000 x g per 3’ minuti. Si formano così due fasi: la parte inferiore, contenente i globuli rossi e la parte superiore, contenete il plasma. Nell’interfaccia è presente l’anello leucocitario (buffy coat), sotto forma di sottile strato biancastro. Mediante pipetta Pasteur monouso da 1 mL, si procede alla raccolta di questo anello leucocitario (buffy coat). Il materiale prelevato si trasferisce in una provetta, contenente da 1,5 a 2,5 mL di acqua e si diluisce delicatamente con la pipetta. Singole gocce di tale materiale diluito si pongono a contatto con gli estratti alimentari predisposti sui vetrini. I vetrini si coprono con gli appositi copri-oggetto da 24×60 mm e si lasciano incubare per 10- 15 minuti. I vetrini si analizzano ad un microscopio ottico con un ingrandimento finale di 20X e 40X (il 20X viene utilizzato per una visione globale, mentre il 40X per una visione dettagliata).

Dall’osservazione dei leucociti, si attribuisce un diverso grado di reazione nei confronti dell’estratto alimentare secondo la seguente scala:
livello 0 = reazione assente (nessuna alterazione morfologica e strutturale dei leucociti) livello 1 = reazione lieve (rari danni ai leucociti) livello 2 = reazione media (leucociti con semplice rigonfiamento cellulare, ma senza lesioni della membrana cellulare) livello 3 = reazione forte (leucociti con vacuoli e leggere lesioni della membrana cellulare) livello 4 = reazione molto forte (leucociti fortemente danneggiati con membrana cellulare disgregata e apertura cellulare).

Questi livelli di reazione vengono definiti in base allo stato del leucocita, il quale passa da una condizione normale ad una di rigonfiamento, poi di vacuolizzazione ed infine di rottura, ma anche dalla quantità relativa dei leucociti che hanno reagito rispetto al totale. Prima di procedere con l’analisi delle reazioni d’intolleranza ai vari cibi, si analizza il vetrino di controllo, sul quale i leucociti sono posti a contatto solamente con i composti usati per l’estrazione degli alimenti. In questa fase, non solo ci si assicura che le reazioni analizzate successivamente siano specifiche e relative all’alimento, ma si controllano anche la quantità dei globuli bianchi per campo ottico che si andrà ad analizzare (controllo sulla procedura di lavoro), così come lo stato dei globuli bianchi del singolo Paziente. I vetrini devono essere di altissima qualità, teflonati a 6 pozzetti, per la semplicità di lettura e per una massima precisione. Come ho detto, questo test non è considerato attendibile dalla scienza ufficiale, perché si basa su valutazioni soggettive, che non hanno la caratteristica della ripetibilità e di un punteggio oggettivo.
2. Il test del capello per le intolleranze alimentari
L’analisi del capello viene utilizzata in alcuni Laboratori per scoprire la causa di malattie allergiche, ma senza alcuna dimostrazione scientifica. Questo test si utilizza in Medicina Legale per scoprire un recente contatto o un’esposizione tossica a metalli pesanti, ma non ha alcun valore per le malattie allergiche o per una valutazione di tossicità o intolleranza. La presenza di un eccesso di metalli pesanti è stata collegata ad alcune malattie dei bambini, come la sindrome ipercinetica. In alcuni casi, i campioni di capelli del Paziente sono studiati utilizzando le variazioni della frequenza di un pendolo.

In uno studio del lontano 1987 (Sethi TJ, Lessof MH, Kemeny DF et al. “How reliable are commercial allergy tests”. Lancet 1987) sono stati analizzati campioni di sangue e capelli di Pazienti allergici al pesce e di persone sane. Questi campioni, numerati e in doppio cieco, venivano sottoposti al cytotest (test leuco-cito-tossico) e all’analisi del capello. Nessuno dei 5 laboratori consultati è stato in grado di diagnosticare l’allergia al pesce, mentre sono state riscontrate allergie ad altri alimenti, di cui i soggetti non soffrivano. Inoltre, il campione dello stesso soggetto ha dato luogo a risultati diversi nei diversi laboratori e nello stesso laboratorio nelle due valutazioni. Un altro studio, svolto con la stessa metodica dell’analisi del capello, effettuata negli Stati Uniti e che ha coinvolto 13 laboratori commerciali, che dichiaravano la loro metodica come in grado di valutare una varietà di patologie, è giunto alla conclusione che il test non ha alcun valore scientifico (Barrett S. “Commercial hair analysis”. JAMA 1985; 254: 1041).
3. Il test della forza muscolare per le intolleranze
Il test DRIA per le intolleranze alimentari è una delle metodiche più note per scoprire le sensibilità al cibo (food sensitivity), che possono favorire disturbi cronici o ricorrenti di vario genere. Il DRIA test è basato sulla valutazione della caduta della forza muscolare, è un test veloce e non invasivo.
Alcuni comuni alimenti o ingredienti causano uno stato di malessere generale, caratterizzato da alcuni debilitanti sintomi: mal di pancia, gonfiore, pesantezza di stomaco, stanchezza o sonnolenza dopo il pasto, diarrea e alcune volte anche il vomito. Il test DRIA è una metodologia analitica, non invasiva e del tutto indolore, per evidenziare la presenza di intolleranze alimentari e sensibilità al cibo, diverse da quelle rilevabili con i comuni test allergologici, utilizzati in ambito medico.
Il test DRIA per le intolleranze alimentari si basa su una reazione fisica documentata: la variazione della forza muscolare, quando l’organismo entra in contatto con sostanze non idonee. Il test riprende i principi di una disciplina chiamata kinesiologia applicata, della quale cerca di superare il limite della soggettività interpretativa dell’Operatore. Infatti, nel DRIA test, la valutazione del Kinesiologo è sostituita dalla lettura computerizzata della performance muscolare del Paziente.
Il test DRIA prende il nome dal tester dinamometrico Driaton, sul quale viene effettuato e consiste in un sedile a scocca rigida, con una cinghia da legare alla caviglia.

Il Paziente, con la cinghia fissata a una caviglia, esercita una trazione su una cella di carico, mentre il Medico gli somministra diluizioni standard delle sostanze sospette. La forza di trazione è visualizzata sullo schermo di un computer; il contatto con una sostanza avversa determina un calo della curva di sforzo. Si tratta in pratica di una “prova di scatenamento”, in cui si valuta cosa avviene nel muscolo, quando l’organismo entra in contatto con la sostanza sospetta.
Il test si basa sull’assunto che, grazie a meccanismi ancora non chiariti nella loro articolazione, documentati da Metzger nel 1989, in presenza di reattività o ipersensibilità ad una determinata sostanza, si determinerebbe una caduta di forza muscolare, quando la sostanza responsabile – alimento o allergene respiratorio – viene posta a contatto della mucosa nasale o sublinguale.
Il DRIA è un test creato da Ricercatori italiani per la determinazione delle intolleranze alimentari. Come gli altri test sulle intolleranze è non convenzionale, ma gli Autori hanno tentato di dargli credibilità, presentando risultati a numerosi Congressi medici, a partire dal 1994. Questi risultati non sono mai stati ripetuti da gruppi indipendenti di controllo.

Il test è stato praticamente accantonato anche dagli stessi ideatori, dopo aver verificato, negli anni, che non c’è stata “la piena accettazione all’interno della comunità medico/scientifica”.
In realtà, il test DRIA non fa altro che riprendere (con strumentazione opportuna) il test proposto dal kinesiologo Goodheart nel 1964. Già le basi della kinesiologia classica sono poco credibili, giacchè il test, nella sua formulazione originaria, era veramente molto rozzo, perché l’operatore pretendeva di misurare la diminuzione della forza del muscolo deltoide del soggetto, semplicemente contrastando il movimento del braccio, dopo aver somministrato la sostanza da testare. Alla base del DRIA c’è lo sforzo di rendere oggettivo, ripetibile e scientificamente dimostrabile, il riflesso di variazione di forza muscolare, in presenza di un’ipersensibilità alimentare.
Il Paziente è seduto su un’opportuna sedia, che consenta il mantenimento della posizione corretta; si lega la caviglia a una cinghia, collegata a una cella di carico, e a un computer e si chiede al Paziente di eseguire uno sforzo pari a circa il 50% dello sforzo possibile del quadricipite femorale, dopo avergli somministrato, con modalità sublinguale, alcune gocce del preparato relativo al cibo da testare.

Già questa descrizione sarebbe sufficiente a rigettare il test, in quanto non scientifico. Come può un soggetto normale sapere di spingere con il 50% della propria forza? E, anche ammesso, sarebbe in grado di rifarlo per un tot numero di volte? Quindi, se il valore di partenza è sballato e non c’è ripetibilità certa, che senso ha parlare di apprezzamento di variazioni rispetto a questo valore?
Andiamo comunque avanti. Durante la contrazione, si pone a contatto della mucosa orale un’opportuna soluzione di alimento. Si testano di seguito 30-40 alimenti, inalanti, miceti, conservanti, additivi e coloranti. Se il computer registra una caduta di forza (superiore al 10% dello sforzo), che compare pochi secondi (da tre a cinque) dopo la somministrazione dell’alimento, si sospetta la presenza di una ipersensibilità alimentare non IgE mediata, nei confronti dell’alimento testato. Prima di decidere sull’intolleranza, si ripete la prova con lo stesso alimento e la si confronta con un placebo (sicuramente inerte) all’insaputa del Paziente.

I vantaggi del test DRIA, ribaditi dai sostenitori, sono che non è doloroso, non presenta effetti collaterali, dura poco tempo, dai 60 ai 90 minuti, prevede un successivo controllo solo dopo 40-60 giorni e solo sulle sostanze non tollerate o dubbie, fornisce esiti immediati e attendibili. I risultati e le modalità di gestione delle sensibilità alimentari vengono dettagliatamente illustrati sul momento dall’Operatore che ha condotto il test DRIA, al contrario di quanto accade con la maggior parte dei test eseguiti in farmacia, dove manca la possibilità di confronto e spiegazioni, dal momento che viene consegnata soltanto una documentazione scritta, spesso peraltro non sufficientemente comprensibile. Inoltre, non interferisce con terapie farmacologiche in corso.Il DRIA è un test sull’organismo nel suo complesso e non un’analisi di laboratorio su alcuni limitati parametri (anticorpi, indici di infiammazione, ecc….): è la persona nella sua globalità, con la sua particolare storia alimentare, psicoemotiva ed energetica, a rispondere allo stimolo
Gli svantaggi sono tutti quelli dei test non scientifici: non è sensibile, non è specifico, non fornisce indicazioni sulla tipologia e sulla quantità degli alimenti.
Secondo gli ideatori del test, viene rilevata una caduta del 10% nella forza. Poiché ciò avviene con una frazione di grammo della sostanza assunta dal soggetto sotto la lingua, l’assunzione lenta di 10 g della sostanza stessa dovrebbe produrre evidenti disastri. In realtà ciò non accade. Se la caduta fosse minima, non si capisce come poterla distinguere dagli “errori sperimentali” o dai fattori non voluti, come le vibrazioni della gamba, la stanchezza muscolare, la distrazione ecc..
Inoltre, per definizione, le intolleranze si distinguono dalle allergie, perché queste ultime dànno una reattività immediata, mentre nelle intolleranze i fenomeni sono “più lenti e insorgono dopo ore o addirittura giorni dall’introduzione dell’alimento”. E ciò è in evidente contrasto con la risposta immediata del DRIA.

Gli svantaggi pratici del Dria test sono legati al fatto che è necessaria la collaborazione del Paziente, perché lo sforzo è volontario e va mantenuto costante per qualche secondo; non è quindi possibile praticare il test sui bambini molto piccoli. Inoltre, per leggere correttamente i tracciati, occorrono esperienza e un buon aggiornamento; la qualificazione necessaria viene garantita da corsi di formazione, curati direttamente dai Centri che eseguono il test.
Come vengono individuate le intolleranze alimentari tramite il test DRIA? In presenza di alimenti ben tollerati, la forza del soggetto durante il DRIA test si mantiene costante. Invece, quando il corpo viene a contatto con cibi, verso i quali ha sviluppato un’ipersensibilità alimentare, il computer registra una variazione della forza muscolare, percepibile a volte anche dal soggetto stesso, che si accorge di non riuscire a conservare la contrazione del muscolo durante la prova.
La lettura dei tracciati sul computer consente di evidenziare con attendibilità le sostanze nei confronti delle quali la persona presenta un’intolleranza alimentare (food sensitivity).
Cosa succede dopo il test DRIAL’obiettivo del test DRIA e, più in generale, di ogni test per le intolleranze alimentari, non è escludere totalmente i cibi risultati positivi (scelta obbligata nelle allergie alimentari), ma è invece quello di educare l’organismo a recuperare la tolleranza alimentare perduta, ovviamente minimizzando nel contempo i disturbi manifestati.
Non si procede quindi all’impostazione di una dieta di eliminazione, non priva di rischi per la salute, difficile da gestire nella pratica e anche da sostenere sul piano psicologico, bensì a una specifica e individualizzata rotazione infrasettimanale degli alimenti risultati positivi al test DRIA. Vengono dunque previsti momenti di astensione dal consumo di tali cibi, alternati, fin da subito, ad altri in cui anche gli alimenti “incriminati” vengono consumati liberamente.
4. VEGA test
Il Vega test è un sistema diagnostico di naturopatia, non riconosciuto dalla medicina tradizionale. Viene utilizzato per svelare eventuali malfunzionamenti di organi (reni, fegato, ghiandole endocrine ed esocrine ecc.) o per identificare delle reazioni avverse agli alimenti. Il Vega test è il progenitore degli attuali strumenti per la diagnosi di intolleranze alimentari; il suo principio di funzionamento si basa sulla fisica quantistica, una teoria ad oggi non ancora univocamente accettata dalla comunità scientifica.
Fu ideato da Shimmel, anche se le varie “scoperte” basilari, riferite al suo funzionamento, sarebbero imputabili al Medico tedesco Reinhold Voll. Egli, a metà del secolo scorso, si cimentò in quella che viene definita elettro-agopuntura (E.A.V.).
Voll iniziò valutando la carica elettromagnetica delle zone di agopuntura cinese, rispettivamente comunicanti, tramite meridiani fissi: 12, secondo la disciplina classica, più altri 8 che scoprì da sé. Questi meridiani collegano gli organi a punti di grande sensibilità, lasciando correre una specifica corrente elettrica (oggetto dell’analisi). Standardizzando la valutazione, Voll ideò un particolare metodo diagnostico per identificare le eventuali alterazioni di questa carica elettrica; inoltre, intuì che ogni organo avrebbe una particolare frequenza, non riscontrabile negli altri. Applicando delle sostanze su questi punti, il Medico si rese conto che avvenivano reazioni “particolari”; fu così che mise a punto il Test dei Medicamenti. Solo nel 1976, Shimmel inventò il vero e proprio Vega test.

Il Vega test si basa sul funzionamento di un apparecchio elettronico. Questo strumento, interagendo attivamente e passivamente con l’organismo umano, dovrebbe fornire dati su certi disturbi degli organi (pancreas, fegato ecc.) oppure su varie forme di alterata tolleranza ai cibi. L’apparecchio elettronico comunica con l’organismo tramite la continuità di un cavo elettrico, all’estremità del quale sono posti due elettrodi; uno si inserisce nello strumento, l’altro viene applicato sulla cute. Nel Vega test è predisposto un alloggio specifico, nel quale bisogna caricare delle apposite fiale, contenenti un liquido in soluzione. Ad esempio, inserendo la fiala specifica per il fegato ed applicando l’elettrodo in un punto specifico del corpo (sulla pelle), il Vega test ne misurerebbe la bioenergetica e capterebbe eventuali compromissioni di questo organo.
Com’è facilmente deducibile, il Vega test non gode di alcuna attendibilità. Per eliminare qualsiasi dubbio, nel gennaio del 2001 è stata pubblicata una sperimentale intitolata “Is electrodermal testing as effective as skin prick tests for diagnosing allergies? A double blind, randomised block design study”; lo studio ha concluso che “i risultati delle prove elettrodermiche non correlavano con quelli dei test cutanei. I test elettrodermici non hanno distinto i soggetti atopici e quelli non-atopici. Nessun elemento del dispositivo Vega test era migliore degli altri e nessuno stato atopico di ogni singolo partecipante è stato costantemente diagnosticato”. Il Vega test non è quindi un metodo efficace per la diagnosi di disturbi agli organi o di varie intolleranze alimentari.
Riferito alla diagnostica delle intolleranze alimentari, il Vega test permetterebbe d’individuare la compatibilità tra il proprio organismo e alcuni alimenti, accertando se una particolare dieta sia adatta o meno per la specifica persona. Il test si svolge attraverso un’apparecchiatura elettronica, che permette di valutare la risposta dell’organismo ad alimenti.

È utile per comprendere come meglio risolvere varie problematiche, tra cui cefalea, gastriti, coliti, cistiti, vaginiti, ecc. Ad esempio, le vaginiti ricorrenti da candida sono curate con i tradizionali farmaci, ma contemporaneamente è consigliata la riduzione di alimenti, che facilitano la proliferazione della candida, come zuccheri raffinati e lieviti. Si modifica il proprio piano alimentare e si introducono, in una seconda fase, i probiotici (es. fermenti lattici, ecc.) e gli integratori necessari per migliorare l’alterazione della flora batterica intestinale o la carenza di enzimi digestivi. Il Vega test aiuta a capire quali alimenti ridurre temporaneamente, ossia per il tempo necessario a riequilibrare il nostro organismo. La terapia viene consigliata per uno o due mesi. Dopo tale periodo viene rifatto il test per decidere come proseguire con la dieta e terapia.
Come si esegue il Vega test per le intolleranze alimentari?Il Vega test consiste nella misurazione, non invasiva e indolore, della resistività cutanea del Paziente, in risposta a fiale test, contenenti estratti delle sostanze da testare, nutrienti o allergeni. Si inseriscono le fiale test in un circuito di misurazione e, tramite l’esercizio di una leggera pressione con un puntale sul dito della mano del Paziente, l’Operatore può visualizzare alcuni valori sullo strumento misuratore.

Se si documenta una caduta di energia, in corrispondenza dell’inserimento di una determinata fiala, si deduce che quell’alimento crea stress al nostro fisico e ne siamo intolleranti. L’alimento in questione deve essere eliminato o, meglio ancora, introdotto a rotazione per un periodo limitato di tempo.
5. Biorisonanza e bioelettronica.
Gli strumenti e le metodologie, che lavorano sintonizzandosi sulle energie del corpo, si chiamano di biorisonanza, perché sfruttano un principio simile a quello dei diapason, o meglio, a quello del sintonizzatore della radio, che, tramite la risonanza, discrimina un determinato segnale tra quelli presenti. Le tecniche di biorisonanza, che fanno uso dell’elettronica, si chiamano bioelettronica.

Questi sistemi permettono di interagire con le energie dell’organismo, a livello atomico, molecolare, cellulare, di organi e di sistemi, quindi hanno un campo di applicazione vastissimo. Ad esempio, nei primi decenni del 1900, Kirlian scoprì un metodo per fotografare l’energia, che circonda un essere vivente e osservò due cose interessanti: la prima è che questa si modifica quando l’organismo viene a contatto con un elemento dannoso; la seconda è che, tagliando un pezzo di una foglia, l’energia, per un certo lasso di tempo, resta anche sulla parte mancante, tracciandone il profilo.
Oggi ci sono tanti modi per valutare le variazioni dell’energia di un soggetto, ad esempio la kinesiologia, in cui si misura il cambiamento della forza muscolare.
Cosa significa variazione dell’energia. Prendiamo una persona, e valutiamo con la kinesiologia la sua resistenza muscolare. Poi accostiamo qualcosa di dannoso, per esempio un pacchetto di sigarette o un cellulare. La resistenza muscolare crolla, perché il suo campo energetico è stato perturbato. Nel caso della bioelettronica, la valutazione si fa misurando le variazioni del campo elettrico di una persona. È il medesimo principio del Vega test.Il Paziente tiene un elettrodo in una mano, mentre l’operatore misura, con la sonda, varie parti del corpo.


I metodi differiscono per il tipo di misura elettrica (resistenza, impedenza, segnale utilizzato) e per la scelta delle aree considerate. Ci sono infatti punti ed aree, che in alcuni casi coincidono con quelli della Medicina Tradizionale Cinese (agopuntura), che sono in relazione con gli organi e le funzionalità dell’organismo.
L’apparecchiatura che si può utilizzare è quella di elettro agopuntura di Voll E.A.V. che valuta la resistenza tra alcuni punti del corpo umano. La resistenza in una persona sana si aggira intorno ai 95.000 ohm. Per fare questa misurazione il Medico posiziona un elettrodo nelle mani del paziente e su di un altro elettrodo a puntale applica circa 0.87 volt ad un punto del corpo da esaminare. Legge la corrente che passa in quel punto, determinandone la resistenza elettrica e passa a misurare un altro punto.
Secondo la legge d’impedenza di Ohm, in un conduttore (in questo caso il punto di Agopuntura del corpo) passa tanta più corrente quanto minore è la resistenza (A = V x R). I valori misurati vengono visualizzati su un quadrante con una scala da 0 a 100 unità, dette US (unità scala): lo zero indica la massima resistenza (minima conducibilità) e il 100 la resistenza minima (massima conducibilità).
Se l’organo correlato ad un dato punto è sano, permetterà il passaggio di una corrente di circa 8-10 micro-Ampere, e la scala dello strumento indicherà un valore di 50 US.
In presenza di un organo non sano, la corrente non riuscirà a scorrere come dovrebbe. Può allora succedere che lo strumento scenda al di sotto delle 50 US (caduta dell’indice), segnalando così una debolezza funzionale o carenza energetica. Questa disfunzione sarà tanto più seria quanto più il valore si avvicina allo zero. Può anche verificarsi che lo strumento salga al di sopra delle 50 US, in questo caso indicherà intossicazioni e/o infiammazione.
La E.A.V, viene utilizzata con successo anche nell’elaborazione delle diete personalizzate. Infatti, qualsiasi alimento, non appena viene messo a contatto con il corpo, produce delle variazioni energetiche in alcuni punti di agopuntura, indicando così se la sua assunzione porterà un beneficio all’organismo, sarà neutra o addirittura negativa: è questa la diagnosi delle cosiddette “intolleranze alimentari”.
L’intolleranza, a differenza delle allergie, è un difetto enzimatico o un’intossicazione temporanea, per cui, una volta individuato l’alimento tossico con l’EAV, occorre astenersi dallo stesso per un periodo variabile dai 2 ai 4-6 mesi, a seconda dei casi, per poi poterlo reintrodurlo gradualmente.
I limiti della biorisonanza. Una caratteristica comune a tutte le medicine non convenzionali è che dipendono moltissimo dalla persona che le opera, e questa è una delle difficoltà che s’incontra ad inquadrarle scientificamente. Anche quando si fa uso di macchine di biorisonanza, entrano in gioco fattori come l’influenza reciproca dei campi energetici dell’Operatore e del soggetto sotto test.
La biorisonanza va anche oltre il semplice test. Se si possono decodificare segnali del corpo, si possono anche inviare segnali all’organismo.
La differenza tra l’approccio fisico e quello energetico somiglia a quella tra lo spostare un carrello con la forza muscolare o tramite un pulsante che fa partire il motore.

Ci si chiede allora perché, visto che l’ambiente è carico di segnali, non funzioniamo tutti come automi impazziti. La risposta è semplice: il nostro organismo accetta solo codifiche ben precise, come un telecomando della TV, che lavora sull’infrarosso, che non si attiva per l’emissione di un fornello. Tuttavia, i segnali squilibranti arrivano lo stesso, sotto forma di geopatie, disturbi elettromagnetici, eccetera.
La biorisonanza offre strumenti importanti per la salute e l’armonia. Il suo uso va integrato in un contesto olistico, che cioè considera l’individuo nella sua completezza. Non è corretto limitarsi, ad esempio, ad un test delle intolleranze, perché queste sono certamente correlate altri squilibri, che vanno trattati contemporaneamente o subito dopo.
Come sempre, per ogni persona, in un dato momento, la soluzione ottimale richiede l’integrazione dei diversi approcci, dall’oligoterapia alle tecniche energetiche.

6. Test del riflesso cardiaco-auricolare o Pulse test.
Si basa sull’assioma, peraltro scientificamente mai provato, che, se la sostanza, cui il soggetto è allergico, viene posta alla distanza di 1 cm dalla cute, il riflesso auricolare-cardiaco (che viene descritto nell’agopuntura) determina una modificazione del polso radiale. Ciò viene utilizzato per la diagnosi di allergie o intolleranze. Come test, si utilizzano estratti liofilizzati di alimenti, posti in speciali filtri. Con questa tecnica è possibile testare 50 alimenti o altre sostanze chimiche in 15 minuti. Non esiste alcun presupposto teorico scientifico al test, né studi che ne abbiano studiato la validità.
La teoria, che indicava l’allergia o l’intolleranza in grado di modificare la frequenza cardiaca, è alla base di questo semplice test, nel quale la frequenza cardiaca viene monitorata in presenza dell’allergene.

Sorprendentemente, il test è ancor oggi proposto e ancor più sorprendentemente alcuni soggetti credono al suo risultato. La dose test allergenica può essere somministrata per iniezione, per bocca o per inalazione. Non è mai stato standardizzato l’intervallo di tempo fra l’applicazione dell’allergene e la successiva modificazione del polso. Tuttavia, una modificazione di almeno 10 battiti/minuto è considerata una risposta positiva, anche se non c’è unanime accordo fra gli esaminatori, se sia significativo un incremento o una diminuzione o entrambe. Peraltro, non esiste, alla luce delle attuali conoscenze patogenetiche delle malattie allergiche, un razionale a questo test. Non esistono studi che abbiano valutato il test o lo abbiano confrontato con test standard.
Test per le intolleranze alimentari IgG mediate.
Tra i test riconosciuti e per i quali esiste una letteratura scientifica a supporto, troviamo i test per le intolleranze, con ricerca di anticorpi IgG o IgG4 e i test d’intolleranza su base genetica. Va precisato che non tutte le Autorità Scientifiche sono d’accordo su questo. Occorre anche ricordare come sia difficile la validazione scientifica, che debba basarsi su valutazioni soggettive, quali sono i disturbi lamentati dai Pazienti, in buona parte sovrapponibili a quelli definiti dalle patologie dell’intestino irritabile e delle malattie funzionali. A favore dell’accettazione di questo tipo di test sta il fatto che i Pazienti, dopo aver eliminato gli alimenti verificati come tossici, presentano un miglioramento clinico, anche se ciò non è un dato costante e non è continuativo.
Riguardo le intolleranze IgG mediate, diversi studi scientifici hanno recentemente osservato un aumento di anticorpi IgG e IgG4 contro antigeni alimentari (porzioni di alimenti con capacità di generare una risposta del sistema immunitario) in diverse condizioni atopiche, in pazienti con eczema o asma bronchiale e dermatite atopica. In questi soggetti, l’esclusione degli alimenti reattivi ha portato ad un generale miglioramento dei sintomi. Nello specifico, uno studio pubblicato sulla rivista American Journal of Gastroenterology ha correlato l’elevata concentrazione di anticorpi IgG4 con la sindrome dell’intestino irritabile, suggerendo inoltre il coinvolgimento di una barriera intestinale irritata e non più integra, con aumento delle IgG4 contro diversi alimenti.
Test di esclusione
Per fare diagnosi d’intolleranza alimentare al glutine, intesa come “sensilibità non celiaca, o gluten sensitivity”, come definita nei Paesi anglosassoni, è necessario escludere che si tratti di malattia celiaca. Per fare questo, ci si basa su test anticorpali ematici, che vanno effettuati sul Paziente, che non sia sottoposto alla dieta priva di glutine, altrimenti i test non sono validi. Il gold standard diagnostico rimane sempre l’esame istologico della mucosa del piccolo intestino, per fare il quale occorre eseguire una gastroscopia e fare biopsie della mucosa del duodeno. È opportuno, nei casi sospetti, eseguire, sul campione di tessuto di mucosa duodenale, l’immunoistochimica per la ricerca dei linfociti CD3, determinando la quota dei linfociti T intraepiteliali, in rapporto al numero di 100 enterociti.
La ricerca genetica degli alleli HLA DQ2/DQ8 ci indica la compatibilità, ma non la certezza di malattia.La presenza di una delle combinazioni HLA di predisposizione determina un aumento del rischio di celiachia, mentre l’assenza delle stesse rende improbabile lo sviluppo della malattia. Si tratta di un test genetico che, pur non avendo un significato diagnostico assoluto, può contribuire a risolvere casi dubbi; viene soprattutto utilizzato per il suo significato predittivo negativo, in quanto soggetti negativi per DQ2, DQ8 e DQB1*02 ammalano molto raramente.
In casi particolari e selezionati, può essere opportuno e necessario ricorrere alla ricerca di anticorpi anti-transglutaminasi, direttamente sulla mucosa duodenale. Questi anticorpi vengono prodotti, in maniera dipendente dall’assunzione di glutine, esclusivamente da parte dei linfociti, che si trovano nella mucosa intestinale. La loro presenza nel siero avviene successivamente e consente la diagnosi della malattia, semplicemente con il loro dosaggio ematico. Può succedere che, per tempi anche lunghi, in presenza o meno di segni clinici e istologici conclamati, questi anticorpi non siano presenti nel siero, ma solo sulla mucosa del duodeno (malattia subclinica o latente). Essi possono essere ricercati direttamente su sezioni di biopsia intestinale, con una tecnica di immunofluorescenza, che fa uso di anticorpi marcati.
Un’altra metodica, molto utile nei casi dubbi, è quella della coltura di cellule della mucosa duodenale, posta in terreno di coltura in vitro con gliadina. I Pazienti celiaci producono anticorpi sia verso componenti dei cereali (anticorpi anti-gliadina, AGA), che verso matrici proteiche dei tessuti (anticorpi anti- reticulina, anticorpi anti-endomisio EmA). Il dosaggio ematico di questi anticorpi agevola la diagnosi di celiachia, senza ricorrere ad esami invasivi. E’stato però evidenziato che, almeno in una piccola parte di soggetti celiaci, ed esattamente in coloro che non hanno un danno dei villi intestinali molto marcato, la ricerca degli EmA nel siero può risultare negativa. Per questi Pazienti, la sensibilità diagnostica degli EmA scende notevolmente.
Alcuni Studiosi italiani, in una ricerca pubblicata su “The Lancet” nel 1996, evidenziavano che soggetti celiaci a dieta priva di glutine e con mucosa intestinale istologicamente normale, avevano un’uguale risposta della loro mucosa intestinale, se, al mezzo di coltura, veniva aggiunta la gliadina. Quindi, in una mucosa di un celiaco in remissione clinica (senza alcuna alterazione istologica) era possibile ottenere la produzione di EmA, aggiungendo la gliadina al mezzo di coltura, così da scatenare la risposta immunitaria. Questi risultati sono stati la prova che l’intestino è la sede di produzione di un auto-anticorpo, l’EmA (anticorpo anti-endomisio) e che questo fenomeno avviene precocissimamente al contatto con la gliadina.
Nella pratica clinica è possibile utilizzare questi concetti, sottoponendo a biopsia intestinale Pazienti con diagnosi dubbia. Se la mucosa di questi Pazienti produce EmA, nel corso della coltura “in vitro” con gliadina, si può confermare la diagnosi.
Questo è l’esame così definito di “challenge in vitro”, cioè della coltura duodenale in vitro. Quest’opportunità non è da sottovalutare, se consideriamo quanti casi di diagnosi dubbie di celiachia giungono a noi Gastroenterologi. Per i Pazienti che sono già a dieta priva di glutine da molto tempo, l’attendibilità di questa metodica è troppo bassa perché si possa evitare l’obbligo al Paziente di passare a dieta libera, per rivalutare la risposta clinica ed istologica. Il “challenge in vitro”, cioè la coltura in vitro della biopsia duodenale con gliadina, anche se molto importante nei casi dubbi, non consente l’evitamento di riesporre i Pazienti al glutine, condizione necessaria per rivalutare la diagnosi.
Un’altra diagnosi differenziale, da tener presente in questi casi, è quella con l’allergia al frumento. In questi casi dubbi è opportuno seguire una flow chart diagnostica, che preveda l’esclusione di una patologia allergica, procedendo nel solito programma di dosaggio ematico delle IgE (Prist e Rast) e anche dei prick test. Inoltre, va esclusa la celiachia, con le metodiche suddette.

Per concessione di medicina360.com: la scienza ufficiale non riconosce la validità degli anticorpi IgG
verso i nutrienti testati. Tuttavia, questo metodo è il più accettabile sul piano della scienza medica
Se i test diagnostici suesposti risultano negativi, si rimane nel campo delle intolleranze. Quella definita “sensibilità non celiaca al glutine” (o “gluten sensitivity“) è particolarmente subdola, in quanto mima, sotto molti aspetti, la malattia celiaca. Da questa si differenzia, sostanzialmente, per la mancanza dell’auto-immunità, presente nel morbo celiaco.
È chiaro, da quanto detto, come sia fondamentale, ma, allo stesso tempo, complessa, la diagnosi differenziale delle reazioni avverse ai nutrienti, sia perché si accavallano tra loro, sia perché si possono confondere con le malattie funzionali dell’apparato digerente.

Oltre alle indagini di laboratorio e strumentali, è la clinica che deve guidare il Medico.
L’allergia alimentare è un fenomeno complesso, che comincia con la fase della “sensibilizzazione”, che avviene quando l’organismo viene a contatto con una o più proteine di origine alimentare, che non riconosce come proprie. Esso allora inizia a produrre anticorpi specifici, appartenenti alla classe IgE, per tentare di neutralizzare le sostanze, che legge come estranee. Questi anticorpi interagiscono con particolari recettori, presenti sulla superficie dei mastociti.
Nella fase di sensibilizzazione, il Paziente non ha sintomi, ma, ogni qualvolta l’organismo entrerà successivamente in contatto con l’antigene, verso cui si è sensibilizzato, scatenerà la reazione allergica. Questa è innescata dalla degranulazione dei mastociti, con una cascata di eventi, tra i quali la liberazione di mediatori chimici, come l’istamina.

La reazione allergica può scatenarsi in pochi secondi dall’esposizione all’antigene, oppure comparire soltanto dopo un certo lasso di tempo. Per esempio, l’allergia al pelo di gatto può manifestarsi a 24 ore di distanza. Le allergie di origine alimentare compaiono abbastanza rapidamente.
Una caratteristica delle allergie alimentari è che, dopo la sensibilizzazione, è sufficiente una minima dose di antigene per scatenare la reazione. Perciò il Paziente allergico deve limitare il più possibile i contatti con l’alimento verso cui si è sensibilizzato. Anche questo assioma è contraddetto dall’esperienza comune, perché alcune allergie si manifestano in modo subdolo e lieve, se il contatto con l’allergene non è massivo, come per esempio avviene nell’allergia al nichel.

L’intolleranza alimentare causa alcuni sintomi, che sono comuni alle allergie alimentari, come nausea, vomito, diarrea e crampi addominali. Ecco il motivo per il quale si tende a confondere le due patologie. In realtà, le intolleranze alimentari, a differenza delle allergie, sono sempre legate ad una dose soglia del nutriente incriminato, che ogni individuo dovrebbe conoscere, per non superarla. Un’altra differenza fondamentale è che, nell’intolleranza alimentare, non viene mai coinvolto il sistema immunitario.
Nella maggior parte dei casi, l’intolleranza alimentare è legata a disfunzioni di tipo enzimatico, come la carenza o la totale mancanza di enzimi necessari per digerire taluni nutrienti. È noto il deficit di lattasi, enzima necessario per la digestione dello zucchero presente nel latte.
La differenza tra allergie alimentari e intolleranze è tuttavia sottile e spesso non è compresa appieno, soprattutto dai non addetti.Entrambe sono reazioni non tossiche e interessano solo alcuni Pazienti i quali, per cause genetiche o acquisite successivamente, presentano una sensibilità verso alcuni nutrienti.
Le allergie alimentari, ripeto, sono reazioni repentine e sono mediate dal sistema immunitario. Quasi sempre le proteine, contenute in determinati alimenti, inducono la produzione di anticorpi, le immunoglobuline di tipo E (IgE), che attivano i mastociti, cellule che rilasciano sostanze, come l’istamina, che provocano sintomi quali il prurito, la tosse e la rinite. Queste allergie alimentari si chiamano IgE mediate e sono per lo più ereditarie.

Altre forme di allergie, invece, derivano da meccanismi di difesa, non mediate dalle Ig-E e coinvolgono altre cellule immunitarie, i Linfociti T. Bisogna fare attenzione, perché questo meccanismo è comune ad alcune forme di intolleranza. Le intolleranze sono mediate da un’attivazione dei linfociti B, con produzione di anticorpi IgG e IgA, provocata da frazioni proteiche del cibo, ma possono essere coinvolti anche i linfociti T e le interleuchine.
Le allergie alimentari IgE-mediate determinano disturbi che compaiono subito dopo l’assunzione dell’alimento in causa, una volta avvenuta la prima sensibilizzazione.
Le intolleranze alimentari sono più frequenti delle allergie e determinano reazioni lente, che possono insorgere dopo ore o giorni dall’ingestione ripetuta dell’alimento. Sono provocate da macronutrienti, micronutrienti, additivi, oligoelementi presenti nel cibo ingerito ed hanno un meccanismo patogenetico non sempre conosciuto. Possono essere dovute a carenza enzimatica dell’organismo, a effetti irritativi sulla mucosa intestinale, a effetti derivanti dalla fermentazione di residui alimentari o ad altre cause ancora sconosciute.
In caso di carenza enzimatica, si hanno problemi assimilativi, che possono essere indagati con i test assorbitivi, per esempio con i test del respiro (Breath Test). Ovvero può trattarsi di una reazione dell’organismo a sostanze, presenti negli alimenti o prodotte successivamente dall’intestino per fermentazione, e la reazione si ripresenta ad ogni assunzione ed è dose-dipendente. È questo il caso, ad esempio, delle pseudo-allergie alimentari, come quella alle fragole, ricche d’istamina.
Per la reazione allergica è sufficiente il contatto con una minima quantità di allergene, mentre per una reazione d’intolleranza alimentare è necessaria un’ingestione continuativa del nutriente incriminato, verso il quale l’organismo diventa particolarmente sensibile. Le intolleranze sono perciò “dose-dipendente” ed assomigliano, in questo, al meccanismo d’azione delle sostanze tossiche.
L’allergia è una reazione dell’organismo contro molecole estranee. Questa reazione è indotta dal sistema immunitario e, nel caso delle allergie alimentari, l’antigene è rappresentato dalle proteine contenute in determinati alimenti.
I nutrienti sono formati da un elevato numero di sostanze, prevalentemente glicidi, lipidi e protidi, composte a loro volta da molecole, le quali hanno un potenziale antigenico. In alcuni Pazienti, queste molecole determinano problemi allergici, perché arrivano a stimolare il sistema immunitario.